AFFEZIONI PROFONDE SU CARTONCINO FOTOGRAFICO | C’è all’interno del variegato arcipelago di immagini di Luciano Bonuccelli un viavai di stimoli espressivi che al di là delle immediate apparenze mi sembra si riscontrino poi sempre allo stesso punto, a ribadire non tanto un’unica visione quanto l’idealità d’impronta insieme umanistica ed estetica che la sottende. È questo pensiero che mi resta dentro dopo che tutto si è decantato (e Dio sa se ce ne sono di sedimenti da filtrare in fotografia per arrivare al nocciolo della questione) : qui la tradizione culturale ed artistica ereditata dal passato è altrettanto importante di ciò che risorge come slancio estetico nel presente, ed insieme vanno a riversarsi in quello che alla fin fine ed al di là del bla bla critico è un abbraccio ai poeti ed ai materiali poetici del mondo, che sono poi il vero soggetto, al di là delle tante accattivanti policromie, che l’amico Luciano insegue come un figlio alla ricerca di un padre meraviglioso e conosciuto in un passato lontano.
Dietro ogni spinta espressiva c’è il perseguimento di qualcosa che ci manca, che ci è stato come sottratto: le fotografie (come per la poesia, la pittura, il cinema ecc. ) ne mostrano il rivestimento, qualcuno dei possibili rivestimenti che possono anche essere scambiati per quel fine indefinibile sentimento che li ha generati. Parlando con Bonuccelli attorno alle sue fotografie non è un caso che il discorso o , meglio, la narrazione s’allarghi sempre al di là dei cartoncini colorati o argentati disposti sopra il tavolo finendo per evocare i veri fantasmi dell’anima inseguiti e poi trovati, che so, in un Dossetti dalla dolcezza e dalle utopie talmente alte e sconfinate da sembrare un angelo o in un Raffaele Carrieri che lo prende per mano e lo introduce nel sensibile eppur concretissimo regno dove la valuta circostante è la poesia. Senza questa narratività, di cui le fotografie sono il pretesto ed il veicolo, queste superfici che si vogliono sensibili resterebbero lettera in parte morta, orfana delle vere risonanze che qui fluttuano sotto, appunto, l’ingannevole fissità delle inquadrature.
Il vero soggetto: una tensione comunicativa a 360° che solo in parte è sostenuta dalla muta e parziale strumentazione fotografica. Ragazzo dai mille slanci e dalle briglie sciolte – ho incontrato per la prima volta Luciano alla fine degli anni ’70 in Versilia quando ha partecipato ad un mio stage incentrato su “la spiaggia” – ha quello spirito che mi è difficile non vedere (e spero mi si passerà questo luogo comune) come “toscano”, civile proprio in senso antico perché accorpato a quella cultura ed a quell’arte che tutti conoscono. Gradevole miscela di intelletto e di fantasia che conferisce saldezza d’animo, socievolezza e gusto per l’affabulazione in chi se ne nutre. A questo letto di piaceri la fotografia si è adattata con i suoi presupposti di linguaggio universale e ponte comunicativo ideale con il mondo. Tutte le avventure estetiche del nostro versiliese hanno questa misura solare, mai incupita da estremismi troppo esacerbati, che talvolta, a dire il vero, è satura al punto tale da rinviare all’assenza di una rigorosa, continuamente sostenuta e ben definita progettualità di fondo come avviene negli autori totalmente dediti a questo mezzo, che lo utilizzano come strumento di indagine e scavo nel profondo. Altro, mi pare, è il respiro di Luciano: non l’esigenza assoluta di indicare una linea di fuga dal reale, di opporvisi, quanto piuttosto di arrivare a sublimarlo questo reale domandolo con lo slancio della passione ed il metro del raziocinio.
DA QUELLA LONTANA SPIAGGIA | Dicevo prima di quel nostro primo contatto sulla spiaggia della Versilia, dove in un luogo e uno spazio aperto, al di fuori degli scontati usi che i bagnanti ne fanno nella stagione estiva, cercavo di spingere i miei occasionali e un po’ titubanti “allievi” a tirar fuori qualcosa di personale, che potesse rispecchiare l’essenza simbolica di una sensazione o di un pensiero o di una scoperta nel loro (nostro) vagabondaggio sulla sabbia, lungo il bagnasciuga o tra i manufatti lì abbandonati in attesa del riuso estivo. Di quell’incontro ricordo l’affabilità (io a quell’epoca così tirchio di parole…) e l’amichevole vicinanza di Luciano quando tentato di spiegare ai fotoamatori locali suoi compagni la differenza che intercorre tra una scampagnata hobbystica con abbandoni estetizzanti e l’opportunità di far nascere un dialogo interiore con le cose apparentemente umili e mute: per avvitare quella tensione espressiva per il cui scioglimento sarebbe stato necessario il ricorso a delle immagini davvero “sentite”, nostre.
Oggi che con Luciano le strade si sono di nuovo incrociate – e questo, lo devo riconoscere, grazie soprattutto a lui, a quel suo tipo di “inseguimenti” che portano pazientemente all’altro capo del filo - mi sono accorto che tutto il suo lavoro fotografico poggia ancora insistentemente su quelle premesse, su quel suo voler uscire a tutti i costi dal dilettantismo domenicale e dai suoi vacui antagonismi cercando di assumere le nuove direzioni espressive e gli snodi che si stavano sviluppando alla fine di quegli animati anni ’70 e che lo hanno tirato dentro nel mondo dell’espressione fotografica.
A quegli anni rimonta una fotografia che è anche un’isola – proprio nel senso letterale di emblema isolato, quasi separato dal resto – ed è il ritratto in bianconero della madre. Mi riferisco naturalmente a quell’immagine dei piedi avvolti come contorti nella loro stessa carne, nella deformazione e corrosione di quelle unghie che sono state come morse dalla terra dei campi lavorati lungo tutta una vita. Origine questa vera e decisiva della vicenda umana di Bonuccelli ed insieme emblema rappresentativo di quell’origine. Una fotografia potente dove una parte, un cosiddetto dettaglio, arriva ad evocare e direi a travalicare quel tutto da cui è tratta. Un’immagine il cui immediato impatto emozionale mette d’accordo tutti, il poeta Luzi (e di questa sua ammirazione avrete un riscontro in un’altra parte di questa pubblicazione) come io credo anche il più sbadato lettore abituato a sorvolare sulle fotografie. Se c’è in ogni lavoro espressivo un punto dove la nostra identità, quello che siamo e da dove veniamo, ridotto all’osso (anzi all’unghia…nel nostro caso) sale al culmine di una visione prorompente anche al di là forse delle nostre occasionali intenzioni, ebbene, in questo caso il centro sta proprio qui. Ecco però che, come sottolineavo prima, quest’immagine emblematica prorompe fulminea ed è come se si spiegasse tutto, per poi rinchiudersi in sé, in un suo isolamento, unica e irripetibile. Proprio come succede ai simboli. Il realismo del soggetto e la violenza del chiaroscuro ne fanno un episodio rivelatore ma separato dall’iconografia distintiva di Bonuccelli; anche se poi il taglio compositivo riconducibile a quel tipo di inquadratura che egli opera normalmente di fronte alle cose. In questo senso no ha seguito, un’isola che forse è anche una fortezza per impedire di andare oltre, di entrare troppo dentro. Una visione, una ferita; una messa a fuoco che trascina un guazzabuglio di ricordi nella ricerca di un segno nella visibilità. Comprende tutto e s’impone a che viene prima del fotografo, cioè al figlio innanzitutto. L’antefatto fatidico che domina dietro e dall’alto la serie intitolata “La mia terra” ma che se vogliamo indirettamente tira i fili di tutta la scacchiera di superfici riprese dal fotografo.
Come cerco di evidenziare nel seguito di queste righe, e come credo risulti lampante a chiunque s’imbatta frontalmente nel tipo di soggetti e di trattamenti formali assunti da Bonuccelli, non è certo nello scavo impietoso della realtà e delle sue asprezze ma piuttosto nella cura ordinatrice che la mente rivolge ai manufatti ed alle materie, alla loro dimensione architettonica e spaziale, che va vista l’inclinazione figurativa ed insieme “astrattiva” di Bonuccelli (un discorso a parte meritano i “Ritratti” che pur nella loro diversità rappresentativa sono riconducibili al resto nel segno di quell’idealità a cui accennavo all’inizio). In ogni caso la sua fotografia, la sua espressione, si stringe attorno ad una forma stabilizzatrice che p simultaneamente un giardino ed un recinto. Riconcilia le contraddizioni, o comunque si sforza di farlo, ed arriva a sventagliare delle armonie laddove altri partirebbero lancia in resta forti delle dissonanze.
UN UNICO TERRITORIO DELLA MENTE | Le serie fotografiche più consistenti di Bonuccelli – perché più sostenute nel loro sviluppo rappresentativo che è durato per molti anni (tempo che immaginiamo sottratto a fatica alle occupazioni familiari e professionali) e perché enucleano le due modalità espressive che ritengo più efficaci – sono i “Ritratti” e “La mia terra”.
I “Ritratti” non vanno visti solo nella loro immediata ed evidente descrittività riferita alle fisionomie di artisti od intellettuali conosciuti ed alle dimore o agli studi in cui costoro operano: potrebbero anch’essi se vogliamo essere parte della “terra” dell’autore, secondo l’accezione più allargata di rispecchiamento ideale da parte del fotografo nell’espressione poetica e figurativa di questi artisti o nei lampi dei loro pensierosi sguardi. Una terra che si precisa nell’humus culturale prima ancora che nel territorio fisico vero e proprio, che sta sempre nelle vicinanze, anche quando è lontana chilometri e chilometri da quella Massarosa dove Luciano risiede.
Un’idealità dunque che trae nutrimento e si sostanzia nei corpi e nei volti dei poeti, scrittori, pittori, scultori, storici incontrati sulla scia di quella prima illuminante amicizia con il pigmalione Carrieri e che oggi possono essere tranquillamente visti come delle tappe fondamentali, davvero decisive per la crescita umana ed artistica di Luciano. Ritratti che sono anche, come sempre, e forse più di sempre, degli autoritratti; o , per dire più esattamente, in questo caso, degli autoritratti elettivi. Perché se è vero che il nostro li innalza, sia visivamente che nei racconti che ne fa come appendice espressiva per niente accessoria a queste speciali esperienze, alla sommità di un percorso esistenziale definito e condizionato dall’amore per l’arte e dalla pratica quotidiana in materia di creatività, è anche vero che c’è una ricaduta di questo fascino sul fotografo che ne è stato speciale testimone. Una più o meno inconscia inclinazione od aspirazione a trasmigrare in quei volti e in quelle sensibilità, ad assorbire un velo di quell’aura quasi “magicamente” in sé e nelle proprie ombre dell’anima, come potremmo definire i “ritratti” degli altri. Ma innanzitutto mi sento di affermare che Luciano si sente come un figlio ed un umile allievo di questi “santoni” dell’arte (ed è comunque sintomatico per capire lo sviluppo del suo lavoro che non ci sia traccia di simili figure o personaggi provenienti dall’arte della fotografia) e soltanto in seconda battuta diviene mediatore privilegiato nel diffondere e nel rivelare al mondo questi volti e l’aura che da essi emana.
I MOTORI VISIBILI ED INVISIBILI CHE TERREMOTANO IL REALE | Ne “La mia terra” c’è da fare subito una considerazione: qui mi pare inglobato pressoché tutto l’edificio linguistico\rappresentativo di Bonuccelli fotografo. Da questo punto di vista esso a mio parere assorbe in sé anche quelle serie di fotografie che si rivolgono ad altre materie e ad altri luoghi, che hanno indubbiamente una loro specificità ma dal respiro più corto sul piano delle motivazioni espressive e anche nell’articolazione del discorso visivo. Le “Pietre”, “Lucca”, “Viareggio”, le vedo appoggiarsi su di uno schema formale unidirezionale dominante che si reitera e si differenzia senza però amplificarsi veramente, trasbordando su altre lunghezze d’onda in grado di aprirsi a nuove chiavi interpretative da parte dello spettatore (ciò che avviene appunto per i “Ritratti” e “La mia terra”). Per chiarire meglio questa che è indubbiamente un’osservazione critica che cala dall’alto e che non renderà giustizia a tutto ciò che Luciano ha perseguito con queste serie, mi paiono alla resa dei conti come una palestra necessaria alla graduale maturazione della sua visione fotografico\pittorica. Una sorta di campo d’indagine ottico, formale, su dei materiali dall’immediata ed evidente fotogenia, con un indubbio valore ed interesse legati al “momento” della ripresa e ad episodi importanti per le proprie vicende autobiografiche. Molte delle fotografie inserite in queste serie rivelano, se mi si consente un commento davvero asciutto, più una preoccupazione per il “quadro” che per il potere trasfigurativo che deve avere un lavoro fotografico nello specifico rapporto che intrattiene con il reale. Posso certamente sbagliarmi ma io credo che i valori formali e cromatici delle fotografie più che risultare un fine in sé dovrebbero fornire degli apporti alla comprensione dei motori visibili ed invisibili che muovono la realtà. E contribuendo ad aprire delle finestre privilegiate su ciò che sostanzialmente è, più che sul come si presenta.
Al contrario i fermenti che agitano i lavori che mi paiono più solidi vanno oltre quella dimensione un po’ estetizzante che rischia in altri casi di cristallizzarsi e di impedire uno sviluppo fotografico a tutto campo, come nell’esempio de “La mia terra” comprensivo non solo di intrecci autobiografici ma anche di indagini ambientali che vanno oltre il dato strettamente locale o transitorio configurandosi in un tutto in cui descrizione ed astrazione, apparato conoscitivo ed evocazione simbolica, trovano un efficace equilibrio.
Ritornando ai “Ritratti” mi pare chiaro che è l’uomo che si è coinvolto prima ancora che il fotografo, a tal punto che il modulo rappresentativo, in molti altri casi tenuto strettamente sotto controllo, qui per fortuna lascia trasparire delle fenditure, come se l’emozione che il fotografo si trova a vivere a stretto contatto con l’oggetto della sua ammirazione dettasse le condizioni: queste arrivano a sconvolgere in certi casi le pianificate regole della composizione, E questo avviene proprio perché dall’altra parte della lente non c’è una materia inanimata che si fa rinchiudere docilmente nel recinto mentale di chi lo sta fissando, al contrario. L’artista che sta dall’altra parte della lente, insomma l’osservato speciale, che presumiamo avere in virtù della propria sensibilità e cultura una sua dimestichezza con il mondo delle immagini e delle apparenze, non può non avere una sana diffidenza verso la macchina fotografica. Da questo fronteggiarsi di entità opposte, cioè dall’autoritarismo decisionale della macchina nella scelta dell’immagine “giusta” da una parte, e la sana diffidenza dall’altra parte verso questa irreale “tranche” estratta dal flusso delle apparenze (che si arroga il diritto di essere “vera”), derivano tutti quei continui riaggiustamenti, cambi di rotta e raddrizzamenti di tiro che non permettono ad un modulo rappresentativo di applicarsi secondo una sua prefissata schematicità. Ne guadagna la spontaneità dell’incontro, la freschezza dell’evento come colto sul vivo. Ne guadagna la sensazione di “verità”.
Il formato quadrato, che in altri lavori è reso funzionale dalla scelta della posizione da assumere nello spazio divisorio tra soggetto ed oggetto - cioè dal punto di vista che si precisa in ragione di minimi calibrati spostamenti dell’obiettivo fino al taglio compositivo finale – si trova qui a fare i con ti con l’impossibilità frequente del fotografo di accorciare le distanze a suo piacimento, come quando a confrontarlo era un muro di mattoni o una roccia. Si tratta di due tipi di riprese totalmente diverse, direi esattamente all’opposto, come si può facilmente intuire. Protendere l’obiettivo spia (per quanto possa essere minimizzata la sua aggressività da un fotografo sensibile com’è Bonuccelli, le sue caratteristiche intrinseche non possono venire cancellate) nell’angolo buio della tana di un poeta abituato presumibilmente a solitudini e silenzi non è esattamente come inchinarsi sopra dei ciottoli o sfiorare degli intonaci! Soggetti dunque questi artisti che è facile immaginarsi sfuggenti e delicati, facce animalesche e comportamenti scontrosi che avranno sicuramente tentato di tenere a debita distanza l’intrusivo occhio di Polifemo. Senza tener conto del fatto risaputo che la fotografia richiama in ogni caso la preoccupazione per l’immagine che si è “staccata” da noi e che non sappiamo in anticipo quando aderirà a quella che si desidera dare agli altri (qualora ne avessimo una di precisa in testa); con l’aggiunta quando si tratta di artisti appartenenti a questa generazione di una presumibile antipatia nei riguardi della notorietà o comunque della divulgazione di immagini che li ritraggono. Dunque, ripeto, “animali” difficili da inquadrare su cui Luciano è riuscito a non gravare con il peso del giudizio e con la gabbia della cornice.
I RITRATTI O DELL’IMPOSSIBILITÀ DI INCORNICIARE “FASCI DI NERVI…” | Tra tanti ritratti impressionanti per la felice scelta del momento della posizione e della luce a mio parere, (che molti altri estimatori condividono con me) spiccano quelli di Zeri e di Bo, ma non da meno sono quelli di Carli di Durbé e di Vigorelli o della straordinaria “Zorria” avvolta nella palandrana nera che trafigge l’obiettivo in quel modo penetrante ed enigmatico a cui assistiamo. Facce come rilievi montuosi dove ad un certo punto si aprono delle fessure, come implose in sé stesse che risucchiano i nostri sguardi. Garboli con puntuale acutezza riferendosi a questi ritratti li definisce “forza muscolare, bruta, perché per Bonuccelli le persone sono in primo luogo delle forse, dei fasci di nervi e di muscoli dai quali si sprigiona un’energia impenetrabile”. Queste forze, queste energie, Luciano riesce a farle scaturire – ed è questo mi pare il suo grande merito – da situazioni fondamentalmente imprevedibili mentre è tutto teso a tenere sotto controllo l’irrompere istantaneo dei mille accidenti che si susseguono ed immediatamente svaniscono nel tempo e nello spazio della scena assunta.
SULL’IMRPEVEDIBILITÀ O SULL’OBBEDIENZA DEL SOGGETTO | Sa che alla fin fine è lui il vero sorvegliato speciale ed ha la sensibilità e l’accortezza di non aprire una gabbia per immobilizzare degli spiriti che ha scelto proprio in virtù della loro dimensione creativa, del comportamento libero, informale, talvolta estremamente anticonvenzionale. Così loro possono restare nelle loro praterie con le uscite dai recinti ben spalancate. Poi l’evento accade come deve accadere, senza forzature appunto. Dicevo dell’imprevedibilità: quale differenza rispetto ai materiali immobili e tranquillamente aggiustabili come le “Pietre”. I “Ritratti” nuotano nella dimensione fenomenologica e psicologica della perdita (l’stante già volato via) e dell’ignoto, dell’imprevedibile (l’istante che sta sopraggiungendo, inafferrabile) e si risolvono soprattutto quindi nell’intervento fatidico sul tempo (lo sfondo, il “fondale”, può aiutare a precisare il tipo di personalità ma non è determinante). Le “Pietre” o i “Muri” sono al contrario porzioni di materie obbedienti e scrutate nel corso di durare temporali allungabili o dilazionabili a proprio piacimento con il fotografo in attesa di quell’evento luce che è determinante nel sostanziare forme e cromatismi, cioè il dato estetico nel suo complesso. In quest’ultimo caso il fotografo è tranquillo nell’aprire e nel chiudere a suo piacimento la cornice, all’apice di un controllo compositivo che si spinge fino all’estremo limite dei bordi. Forme e colori già individuate dallo sguardo nell’atto di sfilarvi davanti, aspettando insomma solo il tocco creativo della luce per la definizione conclusiva dell’insieme.
GLI ATTRIBUTI DEL QUADRATO | La fotografia di Luciano mi pare evidente che si adatta benissimo al formato quadrato, ed alla strumentazione che lo sottende, in ragione proprio della specificità formale e tecnica che lo contraddistingue e che potremmo riassumere in questo modo:
1) permette un’osservazione chiara ed attiva una disposizione meditata degli elementi compositivi in una situazione scenica frontale
2) l’inquadratura quadrata consente un maggiore equilibrio nelle direttive verticali\orizzontali che attraversano lo spazio ripreso frontalmente (ideale in situazioni bidimensionali)
3) dato il maggior ingrandimento e la migliore definizione dell’immagine sul visore – rispetto al più piccolo formato rettangolare - permette di osservare meglio le textures, le trame di dettagli (e microdettagli) di cui è costituita la realtà materiale
4) la strumentazione che sottende questo formato è meno intrusiva rispetto alla realtà che riprende: riduce l’ingombrante presenza del fotografo e quindi tende ad esercitare una minore influenza sul comportamento che assumono le persone prese di mira (ricevere in “petto” o in “pancia” la fotografia, assumendo una postura china, quasi rispettosa, non è evidentemente la stessa cosa che protendere sul soggetto l’”occhio di vetro” e la parte alta del corpo, causando una situazione di incombenza)
5) dal punto di vista dell’effetto visuale e delle sue derivazioni nella sfera estetica e psicologica, il formato quadrato sostanzialmente proietta sugli elementi dell’immagine che vi sono contenuti quegli attributi di perfezione, di equilibrio, di armonia, correlabili all’alto valore psicologico che la nostra tradizione culturale assegna alla forma geometrica del quadrato.
Detto questo c’è da rilevare la difficoltà nell’applicazione della cornice quadrata all’istantaneo e caotico irrompere degli eventi, dei molteplici accidenti che simultaneamente sciabolano la realtà tridimensionale, così come la percepisce la nostra visione oculare (che incornicia circolarmente il visibile). Servirsi in modo proficuo della forma quadrata (o anche circolare) per contenere gli elementi del visibile, che sono quasi sempre affini o riconducibili alle forme rettangolari, mette in moto una disciplina particolare dello sguardo e della composizione; non può certo essere una cornice passe-partout da usare sempre, idonea a tutti i soggetti. Le componenti ideali nel carattere di Luciano e l’impostazione equilibrata del suo vedere fotografico giustificano pienamente l’utilizzo diffuso di questo modello di inquadratura per i soggetti a cui si rivolge.
LA MIA TERRA | È all’interno de “La mia terra”, una di quelle serie che durano tutta una vita, che intravedo gli elementi portanti dell’apparato espressivo di Luciano (dagli esiti fotografici davvero diversi rispetto a quelli dei “Ritratti”). È un lavoro rimasto a lungo come smembrato perché attraversato da diversi e successivi approcci espressivi alla tematica che affronta; così è per il filo narrativo di un impianto a stratificazioni ceh cerca di ricomporre i vari frammenti simbolici. Ma questo credo sia anche il fascino di questo lavoro intrattabile e di difficile lettura, avviato in quegli anni ’70 che assorbivano in sé motivazioni e ricerche di largo respiro.
Il tema affronta le nuove trasformazioni che stravolgono l’identità e l’essenza di quella campagna dove Luciano è nato e cresciuto e verso la quale ha rivolto il suo obiettivo fin dagli inizi. Si va dalle vicende autobiografiche avvolte nei ricordi d’infanzia e dell’adolescenza – a cui rimanda l’emblema dei piedi della madre di cui parlavamo all’inizio - alla presa di coscienza maturata attorno al rivolgimento senza ritorno dei valori che esprimevano un tempo il mondo agricolo e naturale. Su quelle nere zolle e su quegli orizzonti aperti si stagliano ora le serre, i capannoni, i teloni di plastica che sembrano avvolgere oscuri ammassi di vegetali, e tutti gli annessi e connessi (compresi gli immancabili piloni dell’elettricità) che si trascinano dietro queste strutture transitorie e spesso fatiscenti.
C’erano qui tutti gli elementi utili ad un certo tipo di fotografo per costruire un rilevamento documentario adatto a sollevare questa particolare problematica ambientale, magari in chiave giornalistica. Ma questo non è, come ormai risulterà chiaro, nella natura e nella cultura di Luciano. Prevale la caratterizzazione architettonica qui portata al massimo grado di sviluppo e di potenzialità. Il retroterra di geometrie mentali mette ordine ed innalza queste architetture povere molto al di sopra del livello del conflitto: il ripetuto fascino per le simmetrie ne è la prova lampante. Tutto ciò punta sull’inquadramento, al decantazione, la sublimazione, cioè su quella corrente dominante che percorre tutto il lavoro di Bonuccelli.
Ma ci sono altri riferimenti in “La mia terra” che tentano di sottrarsi a questa mente ordinatrice e che fanno sentire le loro tensioni dall’interno. Lo spessore visuale della serie ne esce notevolmente arricchito. Mi riferisco a quelle forze che vediamo prorompere in particolare nelle fotografie a pagina 17, 60, 64, 65, 66, 67, 69, 79 e 86. Il quadro generale denuncia delle rotture, l’edificio ben costruito fa uscire allo scoperto delle energie incontrollabili dove forse si rispecchiano le contraddizioni che credo Luciano abbia vissuto nel rapporto con la sua terra ed il suo passato. Sono sensazioni che ho ricavato dall’osservazione di queste immagini e che mi riesce difficile trasmettere a parole e collegarle ad un discorso logico: forse sono solo frutto della mia immaginazione! Ma prendiamo per es. l’immagine a pagina 78 dove gli ammassi informi di quelle che dovrebbero essere delle piante, avvolte nella plastica, sembrano come venir rianimati dai fasci di luce che piovono dall’alto: premono da sotto, spingono per rompere i lacci. O l’immagine pubblicata in copertina. Al di là dei vetri di un’imponente serra il cui tetto riecheggia la forma della ali di una farfalla c’è un fluttuare di luci e di ombre: come se una sorta di nube gassosa premesse dal di dentro per uscire fuori. Due fotografie che potrebbero sollevare un enigma. Forse qualcosa di indefinibile si agita e si rifiuta di farsi contenere nei teloni di plastica ponendo degli interrogativi alle intelaiature della mente dell’autore, che vengono così rinviati a quella dello spettatore. O almeno, come vorrei fosse chiaro, alla mia immaginazione.
Roberto Salbitani (Padova, Italia, 1945). Fotografo e saggista. Pubblicato i seguenti libri: Immaginesimo (1974), La Città Invasa (1978), Incontri con animali straordinari (1992), Il viaggio (1994) e Minatori dell’argento. Lotte agli alogenuri in camera oscura (1994). Contatto con Roberto Salbitani: info@scuolafotografianatura.it. Contatto con Luciano Bonuccelli: lucianobonuccelli@gmail.com. Pagina illustrata con opere di Luciano Bonuccelli (Italia), artista ospite in questo numero di ARC.
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