segunda-feira, 9 de janeiro de 2023

DANTE MAFFIA | La deriva

 


Avrei potuto intitolare lo scritto “L’arte liquida”, imitando i saggi famosi di Zygmunt Bauman, “La società liquida” e “L’amore liquido”, o “Al macero dell’invisibile”, riutilizzando il titolo di un mio testo di poesia, ma ho preferito “La deriva” per essere in armonia con quello che sta accadendo nei Mediterraneo alle anime che tentato l’approdo all’Europa e finiscono per essere inghiottite dagli abissi.

Circa un mese fa ho visitato una immensa mostra di pittori e di scultori degli ultimi decenni a Roma. Allestita nella “Nuvola” di Fuksas. Migliaia di opere, gallerie arrivate da tutta l’Italia e da Londra per mostrare, come si diceva al mio paese, con una sintesi lampante, il “saganasenza”, cioè il nulla, il non definibile, l’ottusità offerta come dono, l’insipienza organizzata non come presa in giro o provocazione,, magari!, ma come convinzione di sviluppo dell’arte figurativa. Perché non mi si venga a dire che fotografare delle finestre o dei giocattoli o la scansia d’un negozio di biscotti o un cesso pubblico possa diventare realizzazione capace di suscitare fermenti interiori e accendere le corde sottili del proprio essere per congiungersi al divino, alla diversità, al divenire, a qualcosa, insomma che metta in discussione la banalità e congiunga al significato in cerca di nuovi sensi, insomma, che rinnovi lo sguardo sulla realtà. Diceva Matisse che “La sola cosa da chiedere a un pittore è che esprima chiaramente le sue intenzioni… I mezzi impiegati dai pittori, qualora vengano adottati al volo dalla moda, dai grandi magazzini, perdono immediatamente il loro significato”.

Ma evitiamo di rincorrere ricchezze metafisiche o teologiche, poetiche o mistiche, fermiamoci a considerare l’azione posta in essere per cercare di comprenderne la valenza, quale che possa essere, a meno di non limitarsi a dire che l’arte è diventata un rapporto del singolo con un qualsiasi oggetto. In tal caso non ci sarebbe più bisogno di ricorrere agli artisti, ognuno sarebbe artista e si affiderebbe a ciò che riceve dall’anonimo rapporto.

Insomma, per dirla franca, la mostra visitata mi ha scandalizzato, perché via via che entravo negli stand trovavo accozzaglia di qualcosa che tutto era tranne pittura o scultura. Il Caso era diventato l’imperatore o la progettualità geometrica. Non parlo di aggressione al bello canonizzato, sarebbe stato salutare e forse proficuo, parlo di parti asettici, di immagini che hanno l’asetticità incorporata e non possono far mai scaturire una scintilla emozionale, neppure guidata o telecomandata.

Si è sempre detto e ripetuto che improvvisarsi musicista è impossibile, è possibile invece diventare poeti, pittori o scultori con estrema facilità. Basta avere un manager che conosce perfettamente i meccanismi della pubblicità e sappia vendere qualsiasi prodotto utile o inutile, bello o brutto, raffinato o maldestro e, se si tratta di pittore, con facilità si possono incartare i monumenti, dare una martellata a un vaso di fiori, ricoprire di sabbia rossa una terrazza, incartare un panino con la mortadella con una sciarpa di seta. Lo “scandalo” e la rabbia dei conservatori faranno il resto e così il “prodotto” innovativo, che dà all’arte una nuova forma, una dimensione inedita e un significato finalmente suadente sbandiereranno vittoria. Se poi lo “scandalo” corre sul filo della metafisica e s’innesta a invenzioni di rara bellezza che sanno cogliere l’essenza pura del mondo in cammino l’attenzione e lo spazio saranno megagalattici e gli allocchi, gli intenditori raffinati dell’arte, finalmente potranno gridate al miracolo, affermare che la pittura ha trovato il suo filone che sa rendere e realizzare l’Infinito nella sua sconfinata orticaria del desueto che distrugge il consueto e lo ribalta, oltre che renderlo bagaglio ingombrante. Come a dire, svuotiamo gli Uffizi di Firenze e mettiamoci scaldabagni fotografati da Ronaldo o da Messi o dalla Giannini, da Loredana Bertè o da Renato Zero.

Ho letto un articolo, su un quotidiano molto importante, di un critico d’arte che va per la maggiore, che il pittore che ha presentato alla Biennale e alla Quadriennale il “Tappeto che si tesse da solo”, “ha dimostrato di saper cogliere l’orgasmo della materia nel momento dell’estasi suprema, coagulando la quantità e la qualità dei sospiri emessi nel momento in cui la lana si esternava in movimenti sincopati per rendere fruibile anche alle coccinelle la bellezza che fuggiva dai rotoli antichi e per cercare finalmente i residui del Diluvio Universale e rendere la parità oggettiva del significato fuori dagli approdi e dalla demenza delle catalogazioni”.

Un’opera così complessa e così eversiva e così altamente aperta alla ressa delle ipotesi e ancorata al gusto degli intenditori immediatamente viene messa all’asta e venduta a suon di milioni. Chi possiede simili tesori significa che ha saputo gestire innanzi tutto il suo gusto estetico e farlo diventare lupo attento di ciò che l’arte offre di meglio. Non abbiamo visto collezionisti che hanno sborsato per una tessera telefonica, di quelle che ormai non esistono, fiori di dollari e di euro? Non abbiamo visto che un fumetto pubblicato appena quaranta anni addietro è stato messo all’asta per una cifra da capogiro? Quel fumetto irrora profumi d’oriente non appena si tocca, dà la Conoscenza infusa a chi lo possiede e permette di camminare a testa alta dinanzi alle folle, perché … metteteci tutti i perché che desiderate e imparate che l’arte è anche e soprattutto rarità e conta poi poco l’oggetto in sé, conta la tempestività con cui si è acquistato sconfiggendo il “nemico” che avrebbe voluto quell’opera rara, quella gioconda, quella primavera, quel toro infuriato, quei fiori in calore.


Sia chiaro, prima di indignarmi e di sparare contro lo sciocchezzaio ho visitato molti musei in tutto il mondo cercando di capire l’arte nel suo complesso e cercando soprattutto di individuare se davvero decennio dopo decennio c’è uno sviluppo, una continuità per adesione o per negazione. La gratuità in arte è deleteria e in più d’una occasione ha creato veri e propri vuoti incolmabili facendo credere che chiunque può riuscire a captare il famoso invisibile che sta dietro le apparenze e suggerisce la leggerezza delle acquisizioni che danno vita alla spianata della bellezza e al lievito che la bellezza sparge nella quotidianità. Un museo si organizza per offrire all’uomo la possibilità di non strascicare i piedi e di non insudiciarsi nella banalità e nell’ovvietà. Un museo fa volare le anime, perché porge al visitatore le certezze di una comunione con le ali dei sogni e con le chimere. Se offrisse solo congegni e progetti sarebbe un museo della scienza o della tecnica. Ebbene, da un po’ di tempo anche i musei d’arte, soprattutto d’arte moderna, fanno a gara per diventare succursali dei musei della tecnica perché espongono ramaglie secche, bidoni della spazzatura, martelli, pinze, scatole vuote, mobiletti, perfino vestiti smessi e preservativi usati e poi lavati e disinfettati con accanto il nome, soltanto il nome, della escort che se n’è giovata.

Qualcuno mi ha domandato perché me la prendo tanto. Se le stesse cose fossero state dipinte non sarebbe uguale? I nuovi artisti vanno al sodo e invece di dipingere mostrano l’oggetto che così non si potrà chiamare, tra l’altro, natura morta, ma natura viva. Dovrei apprezzare e condividere, perché così il palpito della vita è entrato finalmente a far parte della pittura, dell’arte, e non presta soltanto il suo riflesso. Di questo passo è chiaro che si potrà offrire anche la merda d’artista, come è avvenuto.

Mi ha zittito. Ma davvero devo continuare a credere che il pittore deve prendere tela colori e pennello e mettersi a cincischiare in alchimie che l’Accademia gli ha insegnato? Dipingere adesso significa altro, perché non mi entra in testa? Non ho preso atto che già gli astrattisti avevano rotto con il passato rinnovando la visione, dando possibilità al colore che mai aveva avuto?

Ma finitela, gli astrattisti sono stati eccezionali perché sono riusciti a dare forma al colore e non forma gelida e occasionale, ma forma viva, che ha scardinato i canoni e ne ha rinnovato gli accordi, le sinfonie, la colloquialità. I quadri astratti dei pittori veri, non degli imitatori e dei seguaci stupidi e pedanti, hanno “suggerimenti” perfino di carattere psicologico che ci danno non solo la profondità di chi dipinge, ma mettono anche chi guarda dinanzi ai dilemmi della vita e fanno entrare negli abissi di arcobaleni che hanno parole e non idoli muti.

Parliamo seriamente, ma una collezione di bottiglie vuote è un’opera d’arte? Tanti cuscini sparsi per terra sono un’opera d’arte? La caffettiera con le tazzine di porcellana in un vassoio poggiato su un tavolo è un’opera d’arte?

Lo stesso fenomeno si è verificato in poesia, la caduta a picco dei valori, nella loro complessità e nella loro essenzialità, ha determinato un vuoto immenso nel quale sono spuntati subito gli ambasciatori del Niente, i faccendieri che scrivendo e pubblicando la lista della spesa hanno deciso che sia la nuova poesia, il rinnovamento semantico, la misura lirica assoluta, la semplicità finalmente spolpata da tutto il repertorio della retorica. Già, semplicità o ovvietà? Ma dunque un qualsiasi impiegato del catasto, mostrando i documenti fotocopiati, può dire d’essere poeta?

L’arte, per essere veramente sintesi di spiritualità, di cultura, di esperienza, di sogno e di conoscenza non nasce con uno sternuto, non naviga in superficie. Gli esperimenti si possono, anzi si devono fare, per dare al linguaggio e all’espressione un timbro sempre più dinamico ed elegante, ma non sono gli esperimenti che diventano arte. Sono soltanto mezzo per affinare e approfondire, ma poi bisogna lavorare, fare un corpo a corpo deciso e preparato con la materia, con il sogno che si vuole realizzare, con l’immagine che è nata dal caldo del cuore e pretende d’esistere.


Non avrei mai creduto che le trovate potessero diventare opere d’arte, opere da conservare per i posteri, da mettere nei musei. Da sempre le trovate sono stati scherzi o moderate beffe carnascialesche fatte agli amici nelle ricorrenze delle feste. Le trovate sono frutto dell’estemporaneità, non della meditazione, della macerazione interiore, della ricerca, del rischio di non riuscire ad afferrare l’attimo fuggente. Il gioco è una soltanto delle componenti del fare pittorico (anche poetico, musicale e scultoreo), ma deve sapersi cucire a pennello, è proprio il caso di dire, con la visione, con la perizia, con l’emozione. Altrimenti quello che nasce sarà un ottimo manufatto ma privo di vita, perché la pittura senza vita non dà brividi, non apre le porte del futuro, non avvia a nuove situazioni umane e spirituali.

C’è una prova che si può fare per stabilire se un quadro è opera d’arte o soltanto un oggetto ben riuscito. Deve parlare, deve sussurrare agli occhi, dico proprio sussurrare agli occhi, svelando accordi inusitati, ridando fiato al domani.

Essendo comunque una deriva costruita per gli allocchi che sono pieni di soldi e puntano al collezionismo, quale che sia, forse avrà breve durata. Metto il forse perché se il vizio della superficialità attecchisce e si vende facilmente poi diventa difficile e anti economico sradicarlo. E quando c’è l’economia di mezzo anche il sudore dei maiali, messo in bottiglia, può diventare arte.

E’ certo che la rotta dell’arte ha subito uno spostamento di proporzioni enormi e riportarla nella direzione giusta non sarà cosa agevole. Specificando che direzione giusta non deve essere un ritorno al rinascimentale, al barocco o alle esperienze novecentesche e magari delle riproposte, ma un ritorno alla dinamicità della forma e del colore che, sposandosi felicemente, devono creare un pulviscolo di essenza che sia in grado di offrire il mutamento in atto senza la cancellazione di nulla. Devono esserci le mutazioni, le evoluzioni, le crescite, le simbiosi, gli scontri, ma non le ricusazioni, le invenzioni d’altro che però pretendono di restare arte e in particolare pittura.

Sia chiaro che non ho nessuna intenzione di fare di tutte le erbe un solo fascio e che sto puntualizzando gli sconci delle pretese di una moda assurda e priva di qualsiasi attinenza con l’arte. Per un motivo semplice che basterebbe a dare ragione alla mia indignazione. L’arte vera non è mai anonima, non è mai e poi mai oggetto immobile, spento, qualcosa che esiste già, ma è scoperta, arrivo a una dimensione inedita e illuminante.

Tuttavia si noti che non ho fatto un solo nome di artista, per evitare che si pensi a una polemica dalla quale sono lontanissimo. Semmai il mio è dispiacere della perdita clamorosa di una prassi che però aveva la varietà e la libertà, che soltanto nell’incipit era identica essendo la scena iniziale fatta con colori, tela, pennello e pittore e che poi prendeva il volo innalzandosi o scendendo negli abissi di verità e di essenze da rasentare il divino.

Insisto: l’artista è, deve essere, sempre pittore e non organizzatore, manager, uomo che compie gesti eclatanti. Ormai il linguaggio sta commettendo molti peccati chiamando poeti i cantautori e i parolieri e sta commettendo peccati maggiori appaiando i pittori ai bravissimi pubblicitari che sanno organizzare i cartelloni, addirittura di venti metri quadri, messi a troneggiare nei campi sportivi o lungo le autostrade

I magnifici saltimbanchi dei circhi più famosi sono capaci di fare piroette sbalorditive, al limite del possibile; ci sono ballerine da capogiro per come eseguono la musica e per come entrano nella parte (alcune di una bellezza che turba), ma tutto questo è frutto solo e soltanto di tecnica; la pittura è altro, perfino a volte resa al pulviscolo, caduta a picco nella vaghezza, viaggio compiuto per sondare l’impossibile e l’invisibile (lo ripeto), viaggio per purificare dall’indistinto e dalla deriva! Il groviglio manicheistico delle angosce e rendere, con le immagini, la purezza e la libertà del sogno.

Sto evitando di proposito il linguaggio della filosofia e anche quello della critica propriamente detto. Per una ragione semplice: vorrei essere capito fin nei minimi particolari sui motivi della mia indignazione. Non ho accuse da fare, non ho nessuno da bocciare o da promuovere, non sono giudice di niente, sono un testimone, semmai, di un’epoca che vedo malata e che arranca per sentieri scoscesi e impervi, per approssimazioni, per sfasci, per indicazioni che qualcuno ha creato lungo le strade sostituendo i segnali con lampeggiamenti che invogliano a proseguire ma senza nessuna speranza.

Si diceva, si è sempre detto, che il valore dell’Arte, musica, poesia, pittura, scultura lo si può individuare con certezza matematica se l’opera realizzata è destinata ad essere eterna. Non è più valida questa misura? Adesso è l’effimero che comanda e detta legge? E che cosa offre l’effimero? L’illusione di avere realizzato qualcosa che qualsiasi artigiano sa fare e direi meglio?

Ecco, sono mortificato e sconcertato, non ho parametri a cui afferrarmi e non ho nessun mare aperto davanti con onde tumultuose, con scogli immensi e con lo sciabordare dell’acqua che recita versi immortali. Tutto è immoto, tutto è dentro un’abitudine orribile fatta di pacchi ben confezionati (ricordate che c’è stato anche chi ha fatto passare per arte i pacchi natalizi?), dentro il quotidiano piatto e grigio. Anche questa è arte? O è la deriva d’una barca senza marinai e senza bussola, un andare raminghi per terre sconosciute senza recepirne i profumi, senza coglierne le essenze?


No, non mi sta bene che i facinorosi e i commercianti beceri e affamati di soldi facciano passare per arte la merce dei cinesi o le idee buffe e spesso cretine degli americani e degli inglesi. Non a caso sono parenti. No, diceva un personaggio di un famoso libro, non ci sto. L’arte, per non perdere i suoi connotati essenziali e veri deve sempre nascere da una EMOZIONE, se volete anche da una INTUIZIONE, come sosteneva Benedetto Croce, e non deve mai diventare oggetto asettico e privo di vita, di fantasia, di sogno, di rivendicazioni, di problematiche, di crisi, di accensioni, di viaggi, di amore! E, soprattutto, parlando di pittura, non deve mai separarsi dal colore, dal pennello e da una superficie, tela o tavola o cartone per condensare gli umori dell’artista ma che siano sintesi degli umori dell’universo. Siamo proprio così stupidi e conservatori da pensare che ancora Raffaello o Michelangelo siano artisti? Siamo davvero così stupidi da riconoscere una mela anche quando ha subito maneggiamenti e trasformazioni? E’ rimasta sempre mela, con qualche variazione di sapore e di profumo. Questo ci sta. Che la pittura resti sempre pittura, magari allungando i colli delle figure o creando visi mostruosi per dare messaggi da sciogliere, e una volta sciolti, sentirsi parte della Bellezza, della Saggezza, della Danza Eterna, del germogliare della primavera.

La perizia e l’invenzione, seppure portate alle estreme conseguenze, alla perfezione assoluta, da sole non potranno mai realizzare il sogno in cammino, la fioritura, il profumo e il calore della compiutezza espressiva, né rappresentare piaghe o estasi dell’anima, approdi al divino, misteri che si denudano. Al massimo saranno copertina, premessa e promessa. La pittura è vita vera, colori che parlano, immagini che sanno vivere nell’eterno fluire del senso e continuamente offrire occasioni d’amore sempre nuove, sempre ricche, sempre pronte a dialogare.

A scanso di equivoci riporto la definizione di pittura come è registrata nei vari dizionari. “La pittura consiste nell'applicazione di pigmenti ad un supporto che può essere di carta, di tela, di seta, di ceramica, di legno, di vetro o la superficie di un muro. Il risultato è un'immagine che, a seconda delle intenzioni dell'autore, esprime la sua percezione del mondo o una sua libera associazione di forme o un qualsiasi altro significato che esprima la sua creatività, il suo gusto estetico o anche quello della società di cui fa parte”. 

 

 


DANTE MAFFIA. E’ poeta, romanziere e saggista. È nato il 17 gennaio 1946 in Calabria. Vive a Roma. Dove si è laureato in lettere alla Sapienza. Ha scritto opere in lingua italiana, in dialetto calabrese e in dialetto napoletano. E’ tradotto in numerose lingue. Esordisce nel 1974 con “Il leone non mangia l'erba”, prefato da Aldo Palazzeschi. Le sue successive prove poetiche gli hanno portato la stima di grandi nomi, come M. Luzi, G. Caproni, G. Spagnoletti, N. Ginzburg, D. Bellezza, E. Pecora, T. De Mauro, A: Stella, L. Sciascia, I. Calvino, G. Pontiggia, C. Magris, F. Sabatini, R. Bodei… Si è dedicato alla ricerca nell'ambito della cattedra di Letteratura Italiana all’Università di Salerno. Ha fondato riviste letterarie di prestigio come "Il Policordo" e "Polimnia". Ha collaborato a "Paese Sera", a “La Fiera Letteraria” a la rubrica dei libri di RAI, radio 2. Il suo lavoro più amato è “Il romanzo di Tommaso Campanella” Premio Stresa 1997., tradotto un molte lingue straniere. Recenti i romanzi “Philippe Lafoi”, ambientato a Parigi, e “La figlia di Satana”. Fa parte di giurie di Premi importanti. E ’stato candidato al Premio Nobel dalla Regione Calabria, da alcune Fondazioni e da un Comitato di lettori. E membro d’onore dell’Accademia Internazionale ”M. Eminescu e vincitore del premio Eminescu 2019. L’associazione Internazionale degli scrittori Bogdani, con sede a Bruxelles e Pristina, gli ha assegnato il Premio Internazionale Bogdani per il migliore scrittore tradotto in lingua albanese. Gli è stato anche assegnato il Premio Madre Teresa di Calcutta 2022. Medaglia d'oro della cultura e dell’arte il 17 marzo 2004 premiato dal Presidente Ciampi. Il 10 dicembre 2010 a Palazzo Chigi a Roma ha ricevuto da Gianni Letta il Premio Giacomo Matteotti per la Letteratura Italiana. A ottobre ad Atene gli è stato consegnato il Premio Alessandro Magno. Nel gennaio 2023 ci sarà una festa per Dante Maffìa a Kyoto per i 21 volumi di Haiku tradotti in giapponese. Ha ricevuto molte cittadinanze onorarie. Hanno scritto sulla sua opera 14 monografie e 35 Tesi di Laurea in Università Italiane ed estere. Ha ricevuto i maggiori premi letterari, dal Montale al Gatto, dallo Stresa al Tarquinia - Cardarelli, al Viareggio. Gli ultimi volumi usciti sono LE POESIE D’AMORE PIU’ BELLE DI TUTTI I TEMPI”. E’ stato invitato più volte a Costanza, sul Mar Nero, per parlare della poesia di Ovidio e due volte a Buenos Aires per parlare di J. L. Borges.
 

 


JEAN GOURMELIN (Francia, 1920-2011). Magnífico diseñador cuya línea abarcó desde el absurdo y el humor negro hasta un enfoque metafísico. En todo momento, sin embargo, su obra se caracterizó por un intenso espíritu rebelde. Trabajó con dibujos animados, historietas, vestuario y escenografías, además de embarcarse incansablemente en el grabado, el dibujo técnico, la escultura, los vitrales, el diseño de papel tapiz, en cualquiera de estas motivaciones por el brillo de su inquietud creativa siempre encontró un lugar para el reconocimiento, y cerca de su muerte, fue honrado con una gran retrospectiva de su obra en la Biblioteca del Centro Pompidou de París en 2008, titulada “Los mundos de los dibujos de Jean Gourmelin”. Y de eso se trataba, pues de su pluma saltaban a la realidad infinidad de personajes, formando un mundo único propio de su visión fantástica, sin que en modo alguno pudiera enmarcarse en una línea plástica determinada. Entre lo erótico y lo bizarro, el surrealismo visionario y lo fantástico, especialmente en su dibujo en blanco y negro, Gourmelin fue un auténtico artista del siglo XX cuya obra evoca un universo personal donde se mezclan el horror y la belleza, en cuyas formas a veces imágenes distorsionadas interpelan conceptos de tiempo y espacio. Tenerlo como nuestro artista invitado, siguiendo la hermosa sugerencia del periodista João Antonio Buhrer, trae a Agulha Revista de Cultura una grandeza que ilumina mucho esta primera edición de 2023.




Agulha Revista de Cultura

Número 221 | janeiro de 2023

Artista convidado: Jean Gourmelin (França, 1920-2011)

editor | FLORIANO MARTINS | floriano.agulha@gmail.com

editora | ELYS REGINA ZILS | elysre@gmail.com

ARC Edições © 2023

 


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